Fidel racconta la sua amicizia con "Che"guevara fino alla sua morte: Intervista di Gianni MInà 1987!

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headcracker
00martedì 31 maggio 2005 10:18
L'intervista a Fidel Castro da parte del giornalista italiano Gianni Minà si è realizzata all'Avana nel giugno del 1987. Trasmessa da varie televisioni in tutto il mondo e tradotta in varie lingue, essa è stata pubblicata in italiano con il titolo "Il racconto di Fidel" (Mondadori, Milano 1988).

Gianni Minà. Comandante, lei è un testimone del nostro tempo come ne esistono pochi e l'intervista che abbiano realizzato fino a questo momento lo dimostra. Ora però vorrei entrare nei suoi ricordi più intimi, i ricordi legati ad alcuni compagni di lotta, in particolare Che Guevara e Camilo Cienfuegos. Il Che rappresenta, in Europa e nel mondo, un simbolo, un sentimento particolare.
Ora, quando lei pensa al suo amico il Che, qual è la prima cosa che le viene in mente?


Fidel Castro. Voglio dirti una cosa: ho fatto fatica ad accettare l'idea della morte del Che. Molte volte l'ho sognato e ho raccontato i miei sogni a chi mi stava vicino…bene ho sognato che stavo parlando con lui, che era vivo; qualcosa di molto speciale. E' difficle ancora adesso accettare l'idea della sua morte. A cosa è dovuto? Secondo me, al fatto che egli è ancora presente in noi.
Morì lontano, a molte miglia di distanza dal nostro paese ma, ripeto, all'idea della morte del Che è stato difficile adattarsi. E' successo il contrario di ciò che è accaduto con altri amici. Molte volte abbiamo perso dei compagni di lotta e li abbiamoo visti morire, ma non ci sono presenti come lo è il Che. Penso che l'impressione della presenza permanente del Che sia dovuta a ciò che egli simboleggiava, al suo carattere, alla sua condotta, ai suoi principi. Aveva qualità davvero eccezionali. Io lo conoscevo bene, molto bene. Lo avevo incontrato in Messico e restammo insieme fino al momento in cui se ne andò dal paese l'ultima volta.
Penso realmente con dolore che con la morte del Che si sia persa una grande intelligenza, un uomo che aveva ancora molto da dare alla teoria e alla pratica della costruzine del socialismo.

Gianni Minà. Nella lettera che le scrisse prima di andarsene, il Che sembra quasi amareggiato di non aver scoperto prima le sue qualità di leader e di aver fatto trascorrere del tempo prima di riconoscerle completamente.

Fidel Castro. Bene, a cosa può essere dovuto questo? In primo luogo al fatto che il Che era molto silenzioso, non era estroverso, non amava esprimere certe sensazioni. Le cose che sentiva dentro non le diceva. A un certo momento sono apparsi alcuni suoi versi molto fraterni dedicati a me; qualcuno li aveva tirati fuori. Il Che per natura era un po' scettico riguardo all'America latina, ai politici latinoamericani; magari avrà pensato che la nostra rivoluzione sarebbe potuta finire come tante altre. Ma in realtà, mai mi ha dato l'impressione che avesse dei dubbi, è sempre stato straordinariamente fraterno e rispettoso nei miei confronti. Può aver avuto un po' di diffidenza nei riguardi del Movimento. Può aver pensato che il nostro Movimento fosse troppo eterogeneo, formato da gente proveniente da mondi troppo diversi. Lui invece aveva già una buona preparazione rivoluzionaria, una buona formazione marxista ed era molto studioso.
Si era laureato in medicina, faceva delle ricerche, era molto rigoroso nello studio del marxismo.
E forse anche per questo era un po' scettico. Io credo che se ha scritto ciò che ha scritto su di me è stato per un eccesso di onestà. E' vero, ho dovuto coordinare molte realtà e accrescere la compattezza del gruppo, vincendo le riserve che c'erano in alcuni compagni verso altri. Ho dovuto avere pazienza con loro. Lo stesso Che era molto impulsivo, molto coraggioso e audace, a volte temerario. Per lui ho sempre avuto una considerazione speciale. In molte occasioni si era offerto volontario. Per qualsiasi missione il primo a offrirsi era il Che; si offriva per le azioni più difficili.
Spesso le proponeva lui stesso. Era insomma, di una generosità, di un altruismo totali. Cuba non era la sua patria, ma si era unito a noi e tutti i giorni era disposto a dare la vita per la rivoluzione.
Io impiegavo i comandanti a seconda dell'importanza. Quando un comandante acquisiva meriti ed esperienza, ne promuovevo altri, in modo che imparassero e crescessero. Non si può esporre continuamente un capo in azioni pericolose; prima o poi rischi di perderlo. E noi abbiamo dovuto proteggere molto i comandanti, frenare le loro iniziative. Io mi sono assunto il compito di proteggrli, per quanto possibile, e di impiegarli nelle missioni più importanti. Alternavo gli uomini che partecipavano ad azioni pericolose. Credo che senza questa politica il Che non avrebbe terminato vivo la guerra, proprio per le caratteristiche che aveva. Era anche una persona molto onesta. Se aveva dei dubbi, si sentiva obbligato a dirlo, in un modo o nell'altro. Questo era il suo modo di essere.

Gianni Minà. E' incredibile: la rivoluzione cubana riunì un intellettuale come il Che, un intellettuale come lei e un uomo semplice come Camilo Cienfuegos. Diverse radici, diversa la formazione culturale; ma la rivoluzione vi unì e vi fece vivere insieme. C'era evidentemente un sogno comune.

Fidel. Tre persone di origine diversa, con distinte caratteristiche. La cosa straordinaria era che il Che non era cubano, ma argentino. Quando lo incontrai in Messico veniva dal Guatemala dove aveva fatto il medico ed era entusiasta del processo politico che si sviluppava in quel paese attraverso la riforma agraria. Era stato testimone dell'intervento nordamericano e ne aveva molto sofferto. Portava queste sofferenze dentro e si unì subito a noi, come egli stesso ha raccontato.
Fin dal primo incontro fu dei nostri. Certo, lui pensava ad una rivoluzione antimperialistica, di liberazione nazionale, non ad una rivoluzione socialista, che vedeva ancora un po' lontana, ma si unì a noi senza riserve. Era uno sportivo. Quasi tutte le settimane cercava di scalare il Popocatèpetl , non arrivava mai in cima, ma tutte le settimane ci provava. Soffriva d'asma e seguiva un'alimentazione particolare; eppure faceva uno sforzo eroico per scalare questo vulcano.
Malgrado non sia mai arrivato in cima, non smise di tentare. Questo era un altro aspetto del suo carattere. D'altronde, il Che era per noi il medico; nessuno vedeva in lui il grande soldato.
Camilo era un uomo del popolo e anche nel suo caso nessuno all'inizio poteva supporne le qualità; in seguito però, si distinse molto. E sono sicuro che lo stesso sarebbe potuto accadere ad altri; in seguito ho capito che, nel nostro gruppo di ottantadue uomini (gli uomini imbarcati sul Granma), ce n'erano almeno quaranta in grado di diventare comandanti. Alcuni dei pochi sopravvissuti hanno dimostrato qualità di capi, pre esempio Camilo, il Che ed altri, fra i quali uno di cui si parla poco, mio fratello Raùl.

Minà. Quanto era differente Camilo Cienfuegos da Che Guevara?

Fidel. Erano due caratteri differenti, ma si volevano bene e si rispettavano molto. Camilo era un battutista, aveva sempre voglia di scherzare.

Minà. Un vero cubano

Fidel. Sì, aveva humour cubano, rideva sempre. Molto audace, molto intelligente, meno intellettuale del Che, ma un eccellente comandante anche lui. Non concedeva vie di scampo al nemico. Era molto coraggioso, ma non temerario come il Che. Il Che sembrava un uomo che andasse incontro alla morte. Anche Camilo la sfidava, non aveva paura, ma non agiva con temerarietà. Queste le differenze tra loro. Comunque si volevano molto bene.

Minà. E suo fratello Raùl?

Fidel. Un altro comandante di cui non si è parlato abbastanza è Raùl. E' capace, responsabile e brillante e anche lui ha avuto un ruolo di primo piano. Dal gruppo dei sopravvissuti sono usciti, l'ho già detto, ottimi capi e per questo penso che, se non avessimo avuto tante perdite nelle azioni iniziali, ci sarebbero stati nel nostro gruppo molti giovani (almeno quindici o venti) in grado di diventare comandanti. Perché ciò che serve a un uomo, per distinguersi, è l'occasione e la responsabilità.

Minà. Comandante, vent'anni fa il Che lasciò Cuba e andò a lottare in Bolivia. Può dirci dove è stato dal momento della sua partenza fino all'arrivo in Bolivia?

Fidel. Il Che voleva andare in Sudamerica. Era una sua vecchia idea. Quando si unì a noi in Messico pose una sola condizione: "L'unica cosa che vorrò quando la Rivoluzione avrà trionfato, sarà di potermene andare a lottare in Argentina e che non mi si limiti questa possibilità, cioè che ragioni di stato non me lo impediscano". Io glielo promisi. Questa, allora, era un'eventualità molto lontana. Nessuo sapeva, innanzi tutto, se avremmo vinto la guerra e chi sarebbe rimasto vivo.
Al momento del trionfo c'erano da affrontare problemi di tutti i generi, politici, di unione di forze, relativi allo Stato, all'economia, ecc. Il Che aveva cominciato a distinguersi fin dai primi combattimenti e aveva finito col diventare un importante capo militare. Nessuno avrebbe potuto immaginare che quel medico fosse un così buon soldato. Sia lui che Camilo avevano svolto ruoli di grande rilievo nella guerra, specie nell'invasione del centro dell'isola, in condizioni molto difficili. Su questo si potrebbe parlare molto più a lungo, ma non in questo momento…
Dovevamo dunque affrontare i problemi di una rivoluzione vittoriosa nella quale nulla rimaneva del vecchio Stato, né delle forze armate, né dall'apparato amministrativo.
Molte erano le organizzazioni rivoluzionarie che avevano l'appoggio della popolazione. La nostra era quella con il maggior peso. Utilizzammo il nostro prestigio per tentare di unirle tutte. Ho sempre combattuto il settarismo. Camilo partecipò a tutto questo processo, almeno sino alla sua morte prematura, avvenuta in ottobre a causa degli eventi di Camaguey, opera di Hubert Matos.
Più tardi al Che venne affidata la responsabilità del Ministero dell'Industria. Lavorò con metodo.
Ricoprì successivamente varie cariche. Ogni volta che serviva un uomo serio per un incarico importante, il Che si dichiarava disponibile. Era stato nominato, in precedenza, direttore della Banca nazionale, quando i tecnici (specialisti di banca, ma inaffidabili politicamente) se ne erano andati dal paese. Nacquero storielle, aneddoti. Si cercava un economista e il Che si era offerto.
Allora qualcuno gli chiese:"Tu sei economista?", e il Che aveva risposto:"No, io sono comunista".
Era una delle barzellette che circolavano allora. Stavano esplodendo i contrasti nel paese e gli elementi di destra accusavano il Che di comunismo e di tutte le solite cose.
Il Che però godette sempre di grande autorità. Svolse ciascuno dei compiti affidatogli con rigore e in modo brillante. Lavorò molto, fece esperienze nel campo dell'industria nazionalizzata, dell'organizzazione, del controllo della produzione, del lavoro volontario. Fu uno dei pionieri del lavoro volontario. Si impegnò in quasi tutti i settori. Era molto coerente in tutto ciò ce faceva e costituiva un esempio per gli altri.
Così passò i primi anni della Rivoluzione; poi evidentemente cominciò a sentire l'impazienza di portare a compimento i suoi vecchi piani e le sue vecchie idee. Credo che abbia influito anche la coscienza del tempo che passava. Egli sapeva che erano necessarie speciali condizioni fisiche per i suoi progetti. Si sentiva ancora in grado di attuarli; in effetti, era nel pieno delle sue capacità mentali e fisiche. Aveva molte idee, frutto dell'esperienza che aveva fatto a Cuba, su quanto riteneva si dovesse fare nel suo paese. Stava pensando alla sua patria, ma non solo: aveva in mente l'America in generale, l'America del Sud.
Cominciò ad essere impaziente, come ho già detto. Sapendo per esperienza personale che le fasi iniziali di un progetto come quello del Che, sono le più difficili, ero dell'opinione che bisognasse creare le condizioni migliori. Gli chiedemmo quindi di non essere impaziente, perché ci voleva del tempo. Ma lui voleva fare tutto fin dal primo giorno; noi invece avremmo voluto che altri compagni, meno conosciuti, realizzassero gli indispensabili passi iniziali.
Il Che era anche molto interessato ai problemi internazionali, ai problemi dell'Africa. In quell'epoca c'era stato l'intervento mercenario nel Congo, l'attuale Zaire, la morte di Lumumba e il resto, cioè il regime neocoloniale. C'era un movimento di lotta armata nello Zaire. Quel movimento ci chiese di inviare istruttori e unità combattenti per una missione internazionalistica.
Questo sinora non l'avevamo mai reso pubblico.

Minà. Il Movimento di Lumumba?

Fidel. In quel momento non c'era più Lumumba, era Sumaliot che comandava. Era lo stesso. Lumumba era morto, ma faceva lo stesso.
Io stesso avevo suggerito al Che di prendere tempo con i progetti dell'America latina, di aspettare. Lui voleva formare nuovi quadri combattenti e fare ancora esperienza. Così lo designammo responsabile del gruppo che andò ad aiutare i rivoluzionari dell'attuale Zaire. Entrarono nel paese passando dalla Tanzania e attraversando il lago Tanganica. Erano circa cento cubani e in Congo trascorsero vari mesi.
Il Che scelse di insegnare a combattere al popolo dello Zaire. Cubani e zairesi lottarono contro i mercenari bianchi e contro le forze inviate dal governo. Ci furono molti combattimenti contro i mercenari. L'idea non era certo di fare la guerra al posto degli africani, bensì di aiutarli e di insegnargliela. Ma quel movimento rivoluzionario era appena nato, non aveva sufficienti forze né unità, e alla fine gli stessi capi rivoluzionari dell'ex colonia belga, decisero di sospendere la lotta e il nostro contingente venne ritirato. Quella decisione fu giusta, era evidente che in quel momento non esistevano le condizioni per lo sviluppo della lotta. I compagni zairesi analizzarono, insieme al nostro contingente, la situazione e noi approvammo il loro punto di vista. Le nostre forze vennero così ritirate e il personale cubano fece ritorno a casa.
Il Che era stato circa sette mesi nello Zaire, rimase per un certo tempo in Tanzania, tentando un'analisi delle esperienze appena vissute. La sua condotta in quella missione fu, come sempre, esemplare e insuperabile. Egli comunque, considerava il soggiorno in Africa transitorio, e aspettava che si creassero le condizioni favorevoli per tornare in Sudamerica. Durante tutto quel periodo per noi la situazione fu molto imbarazzante, perché il Che si era già congedato e, prima di partire aveva scritto la famosa lettera. Se ne era andato - com'è logico - con discrezione. Aveva lasciato il paese, si può dire, clandestinamente. Noi tenemmo segreta la lettera e questo originò all'epoca un gran numero di dicerie. Fummo oggetto addiritura di vere e proprie calunnie. C'era che diceva che il Che era scomparso, o che era morto, che c'erano discrepanze tra di noi e tutte le storie che sai.
Sopportammo in silenzio quell'ondata di dicerie e di intrighi, semplicemente per mantenere la segretezza intorno ai suoi programmi e tutelare così, lui e quelli che lo avrebbero accompagnato.
Dopo il periodo trascorso in Zaire il Che era rimasto vari mesi in Tanzania, cercando di guadagnare tempo; poi era passato in un paese socialista dell'Europa orientale che, a dire la verità…bè, non posso dirti quale perché non mi sono consultato con loro. Comunque: era arrivato in quel paese e non voleva più tornare a Cuba perché lo imbarazzava ritornare dopo la pubblicazione della sua lettera. A un certo punto infatti, eravamo stati costretti a pubblicarla perché, se tutta quella campagna fosse rimasta senza una nostra risposta e una spiegazione all'opinione pubblica intrnazionale, il danno per noi sarebbe stato grande; d'altronde la lettera non diceva quale fosse la sua intenzione precisa, ma accennava al proposito di lottare in altre parti del mondo. A quel punto però, il Che era riluttante all'idea di ritornare a Cuba dopo essersi congedato. Riuscii, tuttavia, a convincerlo, perché era la cosa più utile per i suoi progetti. Così tornò, ma clandestinamente, e passò alcuni mesi in una zona montagnosa, allenandosi insieme ai compagni che sarebbero partiti con lui. Aveva chiesto la collaborazione di un gruppo di compagni, vecchi guerriglieri e anche di alcuni nuovi che erano stati con lui nello Zaire, e poi l'appoggio per l'operazione. Scelse il gruppo, conversò con ognuno di loro. Noi autorizzammo che lo seguissero alcuni dei compagni più esperti, perché le operazioni che si sarebbero dovute compiere richiedevano volontari capaci di affrontare compiti molto difficili. Si addestrò con loro per mesi; intanto venivano messi a punto tutti i dettagli per trasportare lui e il gruppo in Bolivia.
Aveva scelto il territorio e aveva elaborato il suo piano di lotta. Noi gli demmo la cooperazione e l'appoggio per mettere in atto l'idea, anche se eravamo preoccupati dei rischi che comportava.
Avremmo preferito che aspettasse lo sviluppo del movimento rivoluzionario in Bolivia, per unirsi a esso in un secondo tempo. Ma lui voleva andare fin dall'inizio. Riuscimmo a trattenerlo almeno fino al momento in cui furono stabiliti i primi contatti che gli avrebbero permesso di viaggiare con un po' più di sicurezza. Si sa che i momenti più difficili sono sempre i primi.
Tutto questo comunque fu organizzato in maniera minuziosa, perfetta. Si attuò il trasferimento del Che e di tutti i suoi compagni fino a un accampamento. Si dovettero attraversare luoghi impervi, superare ostacoli complicati. Non fu facile ma fu possibile grazie ai metodi usati. Così il Che riuscì a unirsi agli altri nell'area di Nancahuazu, nel territorio boliviano scelto da lui.
Questo fu, più o meno il suo itinerario da quando se ne andò: Tanzania, la parte est dello Zaire, ancora la Tanzania, un paese socialista dell'Europa, di nuovo Cuba e infine quella zona della Bolivia.

Minà. In Europa si dice che anche l'editore Feltrinelli contribuì, senza volere, a guidare la Cia sulle tracce del piccolo gruppo del Che nel bosco vicino a Vallegrande. C'è qualcosa di vero in questo?

Fidel. E' la prima volta che sento questa versione dei fatti, questa chiacchera. Non c'è la minima possibilità che Feltrinelli abbia giocato un tale ruolo. Oggi si conosce la storia completa perché sono stati scritti molti libri e io li ho letti; primo fra tutti il Diario del Che, che ho studiato a fondo. Conoscevo molto bene il Che; attraverso il suo diario ho potuto percepire ognuno dei suoi stati d'animo. Sono stati resi noti anche tutti i bollettini e i documenti dell'esercito boliviano e tutte le informazioni che esso aveva ricevuto: quando, in che momento, comel le interpretarono, che cosa fecero. Tutta questa storia è stata scritta mille volte. Ci sono anche i diari di altri compagni che sopravvissero, di compagni che rimasero con il Che fino all'ultimo momento. Alcuni diari caddero nelle mani dell'esercito boliviano. Siamo anche a conoscenza di altre testimonianze e sappiamo, passo per passo, che cosa successe. Ci furono trasgressioni agli ordini, qualche imprudenza che diede al nemico gli indizi della presenza di qualche cosa, anche se non sapevano quanto fosse grande. Ma tutto questo non ha realmente niente a che vedere con Feltrinelli, né con nessun altro. Questi fatti ormai si conoscono minuziosamente, nei dettagli.
C'è un'altra cosa da considerare: il Che e i suoi compagni avevano già degli accampamenti, avevano creato le condizioni necessarie per agire. Tutto questo è raccontato. L'esercito del governo boliviano percepì dunque, in qualche modo che c'era qualcosa di strano e questo proprio mentre il Che era partito con un forte contingente per esplorare il terreno e fare un ampio giro della zona.
Nell' accampamento rimasero i neofiti. Quelli che si erano uniti al gruppo per ultimi. Il giro durò molte settimane, fu una vera e propria odissea; nel Diario del Che è stato descritto dettagliatamente. Si dovettero affrontare montagne e terreni difficili, fiumi in piena. Durante la perlustrazione ci fu addirittura la perdita di uno o due uomini, alcuni caddero in acqua e alla fine il gruppo, dopo varie settimane, tornò completamente sfinito. Rientrati all'accampamento, scoprirono che in loro assenza c'erano stati dei problemi di ordine disciplinare e delle difficoltà. Ma la cosa peggiore fu che il gruppo, arrivato sfinito, con alcuni uomini malati, non ebbe il tempo di riprendersi dalle fatiche perché di lì a poco iniziarono le incursioni dell'esercito e i primi bombardamenti. Il gruppo del Che non perse uomini, data l'esperienza che aveva. Anzi, tese piccole imboscate per impadronirsi di armi e inflisse duri colpi all'esercito. Io direi però, che tutto accadde prematuramente. Fu decisa un'incursione e fu lasciata nell'accampamento una parte del gruppo. Si produsse così una separazione, una divisione in due tronconi che non riuscirono più a stabilire un contatto. Oltre a tutto questo, il Che non aveva con sé le medicine sufficienti per l'asma. Era successa la stessa cosa ai tempi della spedizione a Cuba con il Granma: anche allora aveva dimenticato di portarle. Sulla Sierra Maestra siamo stati costretti a fare uno sforzo eccezionale per procurarci a qualunque prezzo le medicine. Terribili attacchi di asma spesso lo paralizzavano. Quella medicina era indispensabile, eppure in tutto quel periodo in Bolivia, ne rimase senza.
Tutto il resto è raccontato con grande rigore e precisione. Grandi sono le qualità narrative del Diario del Che. Descrive con chiarezza ognuno degli avvenimenti. Fu una vera prodezza riuscire per mesi a eludere l'esercito e ad affrontarlo in varie scaramucce. Ma non si crearono mai le corcostanze che avrebbero permesso di mandare una colonna in suo aiuto. Nessuno di noi sapeva dove fossero, perché tutte le vie di comunicazione erano state interrotte dal nemico e nelle città i contatti erano saltati. A questo punto il destino della guerriglia dipendeva soltanto da ciò che faceva la guerriglia.
Il Che sapeva che se si fosse trasferito, anche solo con venti uomini - come stava progettando di fare - in una località favorevole, dove Inti e Coco Peredo fossero conosciuti, la guerriglia avrebbe avuto possibilità di sopravvivere. Questo gli era chiaro e in tale direzione si stava incamminando.
Ciò che accadde, stando non solo al Diario, ma anche ai resoconti dell'esercito boliviano, è impressionante: le prodezze, il numero dei combattimenti ingaggiati, le gesta di quegli uomini rappresentano una vera epopea.
Cosa può avere influito nel far commettere in seguito errori che si sarebbero potuti evitare? Io ho un'opinione: il Che rimase molto scosso quando si convinse della disfatta dell'altro troncone.
A noi la notizia arrivò attraverso il telegrafo. In base all'esperienza, mi convinsi immediatamente che era esatta, che la morte di Tamara, di Joaquin e di tutto il gruppo era vera; ma lui era restìo a crederlo e questo è evidente nel Diario. Per mesi pensò che si trattasse di una menzogna dell'esercito, che aveva l'abitudine di emettere bollettini falsi. Noi invece leggemmo i telegrammi e ci persuademmo subito che era vero.
Quando finalmente si convinse (perché quasi tutti i suoi sforzi e i suoi giri erano stati indirizzati alla ricerca dell'altro gruppo), quando si persuase che non c'era più il gruppo e che non li avrebbe più incontrati, allora si mise in marcia per cercare una base socialmente favorevole. Tra le sue file c'erano già dei bravi compagni boliviani che si erano distinti. Era una mossa giusta e offriva possibilità di sopravvivenza.
Ma quanto influì sul suo stato d'animo la morte di quei compagni? Credo che il Che abbia agito in ultimo con una certa temerarietà. Camminavano lungo un sentiero quando - lo ha scritto lui stesso nel Diario - arrivato su una collina disse: "Siamo stati precedeuti da "Radio Bemba", cioè da "Radio labbra", da una spiata. Insomma si era accorto che lo aspettavano al varco. Il Che continuò l'avanzata, e arrivò con j suoi uomini, di giorno, in un villaggio vuoto. Ora, vedere un villaggio già vuoto è un segnale preciso che qualcosa non va. La popolazione ha percepito che sta per esserci un combattimento. Qualunque esercito, a quel punto, non doveva far altro che aspettare, che tendere un agguato. In pieno giorno l'avanguardia del Che continuò ad avanzare su colline spoglie, come se l'esercito non esistesse, e cadde nell'imboscata. Molti rimasero uccisi e fu un colpo durissimo.
Nel gruppo, oltre tutto, c'erano dei malati, e anche il loro medico lo era: il Che li portava con sé, anche se questo rallentava la marcia. A volte noi, in situazioni simili, cercavamo un luogo dove lasciare i feriti, presso qualcuno che li accudisse, e poi continuavamo la marcia. Sicuramente anche lui cercava una soluzione di questo genere. A quel punto , però, aveva perso i contatti con l'avanguardia, era stato localizzato e si trovava in una valle. Era stato ucciso anche uno dei fratelli Peredo, che si stavano distinguendo come comandanti; si trovò insomma, in una situazione e su un terreno difficilissimo. E lui, che per mesi era riuscito a eludere l'esercito, lui, che aveva dato vita a un'epopea, si ritrovò in una situazione disperata: lo localizzarono, lo attaccarono, loferirono e, quando il fucile fu inservibile, riuscirono a catturarlo, a farlo prigioniero; poi lo portarono in una località vicina. Io penso che ancora nel momento in cui marciava lungo quel sentiero, con venti uomini e alcuni comandanti boliviani all'altezza del compito, se fosse arrivato lì dove aveva pensato di andare, avrebbe avuto non solo la possibilità di sopravvivere, ma anche di ridare sviluppo al movimento guerrigliero. Fino a quel momento, stando alla nostra esperienza e a quella del Che, aveva ancora qualche possibilità di farcela. Il momento in cui perse davvero ogni possiblità fu quando l'avanguardia, avanzando in pieno giorno, lungo un ampio sentiero di montagna, cadde nell'imboscata. Qualcosa deve avere influito sul Che: il suo disprezzo per la morte per esempio.
A volte egli andava davvero incontro alla morte, soprattutto in certi momenti. In quelle circostanze avrebbe dovuto muoversi con più prudenza, evitare certe strade, cercare altre soste, avanzare di notte. Un'imboscata di notte non avrebbe procurato un gran danno; si spara al buio o si può identificare il nemico per una luce o altro. Io credo che certi aspetti del carattere del Che in quel momento influirono sugli avvenimenti. Io lo conoscevo molto bene e il suo Diario l'ho letto con attenzione più di una volta.


Minà. Nel drammatico momento della morte del Che, nacque in Europa, la tesi secondo la quale, dopo il vertice di Glassboro, Stai Uniti e Unione Sovietica avevano deciso di darsi una tregua rispettivamente in Asia e America latina. Per questo Cuba non potè fare più niente per aiutare il Che in Bolivia.

Fidel. Perché io veramente, non mi ricordo di questo patto. La guerra in Vietnam era in piena escalation. Noi qui stavamo appoggiando l'azione del Che in Bolivia. Non c'era nessuna relazione fra una cosa e l'altra, non c'era nessun coinvolgimento dei sovietici, non c'erano situazioni strategiche da discutere. Noi, con grande lealtà, abbiamo dato al Che tutto l'aiuto che ci aveva chiesto, i compagni che ci aveva chiesto, una collaborazione totale. Abbiamo rispettato la nostra parola. Che cosa avremmo preferito? Che il Che aspettasse. Avremmo preferito che in Bolivia esistesse un fronte rivoluzionario organizzato, ma non potevamo imporre al Che una decisione.
Tutto ciò poteva causare difficoltà di ordine politico e accuse contro di noi; comunque, affrontammo questi inconvenienti per mantenere la parola che gli avevamo dato. E rispettammo la parola data. Non solo la rispettammo, ma credevamo a ciò che il Che stava facendo; credevamo che potesse realizzare ciò che si proponeva.
Io sostengo sempre che, né il successo, né il fallimento, sono dati che indicano se sia giusta o no una linea di condotta. Noi saremmo potuti morire tutti nella nostra lotta e ci andammo vicini più di una volta. Se fossimo morti, molta gente avrebbe detto che ci eravamo sbagliati. Io penso invece che se fossimo morti, ciò non avrebbe voluto dire che eravamo in errore. La nostra impresa era comunque giusta. Esiste una serie di fattori imponderabili che intervengono, tra i quali la fortuna.
Noi sopravvivemmo, in giorni difficili, quasi per miracolo. Sarebbe un'altra lunga storia da raccontare; comunque, in circostanze del genere, il successo non è il metro per giudicare la giustezza di una linea. Molti fattori hanno condotto a quel risultato negativo, ma io non metto in dubbio la linea del Che. Dico soltanto che avrei preferito che non fosse passato per quella tappa iniziale così rischiosa, avrei preferito che si fosse potuto incorporare come capo politico e militare, come stratega, in un movimento rivoluzionario che avesse già superato quella fase. Per il suo valore, per le sue qualità, per il suo prestigio, avevamo affidato al Che, durante la nostra guerra, le missioni più importanti. Questa missione però, non gliela avevamo affidata a noi. Fu sua l'idea, suo il piano. Noi partecipammo perché, a mio parere, le sue idee erano giuste e poteva farcela. Poteva farcela!

Minà. Perché le autorità boliviane non hanno mai voluto restituire il corpo del Che? Faceva paura anche da morto?

Fidel. Hanno voluto far sparire il suo corpo per evitare di creare un luogo che fosse oggetto di venerazione e di visita da parte della gente. Non si sa ancora cosa fecero del corpo del Che, né dove si trovi. Non si è riusciti a chiarirlo. Sono state trovate molte cose, molti oggetti suoi. Si sa quello che è successo, è stato raccontato da entrambe le parti e, in molte cose, le due versioni coincidono. Quello che non si sa è dove sia sepolto il Che. Vollero farlo sparire. Così volevano anche gli yankee.
Ugualmente, il Che si è trasformato per il mondo intero, in un grande simbolo dell'uomo esemplare, rivoluzionario, eroico. Si è trasformato, io direi, in un esempio di combattente e di rivoluzionario che ha costituito un modello per i compagni del Terzo mondo e perfino del mondo industrializzato. Quest'idea e quest'immagine del Che sono giustificate.

Minà. C'è una singolare coincidenza legata alla morte del Che. Almeno diciassette o diciotto fra le persone che ebbero responsabilità diretta o indiretta, nel suo assassinio, sono morte non sempre in modo chiaro.

Fidel. Sembra che alcune delle persone che parteciparono all'assassinio siano morte così. Bè, diciamo che nessuno ha organizzato questo. Forse, in maniera spontanea, il popolo ha fatto giustizia di persone che ebbero un atteggiamento indegno. Non mi riferisco ai militari che combatterono contro il Che, ma a persone che svolsero il ruolo di confidenti, traditori, sbirri, in qualche modo legate a tutta questa vicenda.

Minà. Perfino il contadino che…

Fidel. Sì, l'ho letto in un libro scritto da quel generale boliviano, Gary Prado, un generale invalido che ora, credo, vive a Washington ed è addetto militare. Ha scritto un libro molto obiettivo, molto rispettoso anche se, ovviamente, ha esaltato l'esercito boliviano. Lo capisco, è un militare boiliviano, prova un certo sentimento per il suo esercito. L' esercito boliviano aveva una cattiva preparazione. Indiscutibilmente, però, andò acquistando sempre più esperienza in quel periodo. Gli yankee fecero grandi sforzi e intensificarono i programmi di addestramento. Il loro obiettivo era distruggere il Che.

Minà. Due uomini così riservati come lei e il Che, come si salutarono l'ultima volta che si videro; con un abbraccio da vecchi amici o con una stretta di mano?

Fidel. C'eravamo visti tante volte. Fu un momento affettuoso. Ci salutammo con un abbraccio, senza tante effusioni, visto che, né lui né io, eravamo facili alle effusioni. Fu comunque un momento di forte emozione, di grande solidarietà. Parlai molto con lui, andai spesso a trovarlo là dove si stava addestrando con il resto del gruppo. Trascorse vari mesi nella provincia di Pinar del Rìo.

Hasta Siempre Comandantesmb2 smb2 smb2

dominus9
00mercoledì 1 giugno 2005 15:42

Hasta Siempre Comandante



Ti sembrerà strano ma concordo!:Sm1: :Sm1:
headcracker
00mercoledì 1 giugno 2005 20:03
:Sm27: :Sm27: :Sm27: non me l'aspettavo proprio, mi fa piacere:Sm1: :Sm1: :Sm1:
Aragorn the Dunedan
00venerdì 10 giugno 2005 12:04
interessante...il che è uno dei miei miti!
headcracker
00venerdì 10 giugno 2005 17:40
Re:

Scritto da: Aragorn the Dunedan 10/06/2005 12.04
interessante...il che è uno dei miei miti!



Siamo in 2 compagno:Sm1:
Aragorn the Dunedan
00venerdì 10 giugno 2005 21:01
basta vedere le nostre firme!!
Granduca di Milano
00sabato 11 giugno 2005 09:18
Il Che era l'unico vero rivoluzionario cubano, per questo il furbo Castro lo ha in pratica suicidato inviandolo nelle americhe sapendo che prima o poi isolato dal popolo lo avrebbero eliminato e lui avrebbe avuto un concorrente in meno, anche perchè negli ultimi tempi il Che era in forte attrito con Castro che si stava creando un regime personale tradendo gli ideali rivoluzionari.

PADANIA INDIPENDENTE:Sm22: :Sm22: :Sm22:
Aragorn the Dunedan
00sabato 11 giugno 2005 11:27
davvero? non lo sapevo...però qualcosa sotto ci doveva essere....
p.s. - non nominare la padania!!:Sm18: :Sm18: :Sm18:
headcracker
00sabato 11 giugno 2005 14:48
Che Guevara ando in bolivia per continuare il suo progetto di riscatto delle masse sudamericane, come aveva già accordato con Fidel prima della rivoluzione: l'avrebbe fatta solo se libero di andar via dopo...

Tra l'altro ando a combattere anche in Congo e visito diversi paesi dell'europa orientale.
Granduca di Milano
00domenica 12 giugno 2005 09:13
Appunto non lo voleva tra i piedi se no avrebbe avuto un antagonista pericoloso per la sua immagine.

PADANIA INDIPENDENTE:Sm1:
Aragorn the Dunedan
00domenica 12 giugno 2005 15:47
e dai con questa padania..non ti dico cosa penso io perhè sennò!!
(Ska)
00martedì 14 giugno 2005 14:22
:Sm4: non diciamo minchiate...fidel ha supplicato il che di restare...
Simonbz
00lunedì 20 giugno 2005 11:41
come puoi pretendere che un padano abbia una visione della storia come noi, uno che probabilmente si informa su la padania...

Purtroppo la soggettività della visione non si può attaccare...

Quindi che resti delle sue idee, o che legga altri libri...
$paolo bitta$
00lunedì 20 giugno 2005 13:07
Io non sono comunista però devo dire che il Che aveva le palle cubiche. [SM=x751611]
ZebroticO
00mercoledì 24 agosto 2005 11:43
è risaputo ke il che è ammirato anke da nn comunisti!!ma solo essi concordano pienamente cn il suo ideale!!

HASTA SIEMPRE COMANDANTE!![SM=x751583]
(Ska)
00sabato 27 agosto 2005 08:38
hasta siempre la victoria comandante!,,,([SM=x751593] ?)
ZebroticO
00sabato 27 agosto 2005 21:50
Re:

Scritto da: (Ska) 27/08/2005 8.38
hasta siempre la victoria comandante!,,,([SM=x751593] ?)




ke vuol dire sto post di preciso!?![SM=x751548]
headcracker
00lunedì 29 agosto 2005 21:35
il solito cazzone SKA[SM=x751560] [SM=x751560]
ZebroticO
00sabato 3 settembre 2005 14:14
ah capisco...[SM=x751578]
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